Riflettiamo e commentiamo
Leggendo di recente un libro di uno scrittore umbro, che da oltre un trentennio è immerso nel mondo dell’olio e ne decanta il suo valore, sono concorde su alcune sue considerazioni e riflessioni. Secondo lui per ottenere un olio di qualità bisognerebbe attuare un cambiamento radicale in tutta la filiera ma anche nel mondo sociale. Tra i nemici della cultura dell’olio non sono solo quelle persone che consentono la vendita sottocosto di una bottiglia di olio extravergine a € 1,99, o anche meno, ma anche molti consumatori poco attenti e alcuni produttori che potrebbero fare la differenza, ma non riescono a dare il giusto valore al frutto del proprio lavoro perché non ne sanno valutare il posizionamento corretto. Ci vorrebbe un’azione collettiva, di categoria, per innescare la rivoluzione dell’olio di qualità, in modo da dargli un futuro e sottrarre importanti quote di mercato agli oli prodotti dell’agroindustria. Ricordo che l’olio buono (di qualità) occupa soltanto il 3% del mercato in Italia. Un recente studio della Facoltà di Agraria di Portici ha individuato nell’olio, tra le tante virtù, anche quella di avere un “potere saziante” e che il suo consumo faccia diminuire l’appetito, questa può essere considerata una buona notizia, «visto che nel mondo cosiddetto evoluto si spende più per dimagrire che per saziare». Nel momento in cui acquistiamo una bottiglia di olio buono e notiamo il prezzo un po’ caro, ci meravigliamo; è bene però farsi due conti, pensando a quanto si pagherebbe un nutrizionista che ci aiuti a perdere peso. L’autore fa poi il confronto con il mondo del vino dicendo che negli ultimi 30 anni, si sono fatti grandi passi avanti nella cura del vigneto e in cantina . Proviamo a chiedere invece ad un olivicoltore di cambiare le sue abitudini produttive, di irrigare, di potare in maniera diversa, di proteggere la pianta dai parassiti in modo attivo, ma rispettoso dell’ambiente … il più delle volte ci risponderà con un’alzata di spalle: «Nutrire l’ulivo, dargli acqua? Mai sentito. Si è sempre fatto così». Ecco, spiega l’autore, quando l’uomo si attacca alle consuetudini in modo cieco, fa un danno a se stesso e alla natura. Tradizione e Consuetudine non sono sinonimi: «La consuetudine si disinteressa, fino a compromettere la qualità del prodotto finale. Non riconosce l’evoluzione del gusto nel tempo, nella convinzione che ciò che era buono cinquant’anni fa lo debba essere ancora oggi». Mentre « tradizione, è ripetere certi usi avendo cura di migliorare la qualità del prodotto finale, dobbiamo scegliere cosa prendere dal passato e cosa tramandare al futuro, quasi fossimo un filtro di qualità». Altro punto importante, direi fondamentale, è che la qualità dell’olio andrebbe insegnata a scuola. La scuola dell’obbligo dovrebbe educare in tal senso,dovrebbe essere materia di studio, ancor più le scuole alberghiere dove con l’olio si lavora, saranno loro i futuri ambasciatori della cucina italiana, del territorio e del made in Italy.
L’olio fa parte di noi, del nostro passato, presente e futuro, è nel nostro DNA, nella nostra cultura contadina. «Il disinteresse che esiste nel consumo domestico di olio, dove si sceglie per il prezzo piuttosto che per il valore, ignorando la qualità, è figlio di un disinteresse ben più importante, culturale, educativo e di una grave lacuna nel nostro sistema scolastico».
Il problema non si può superare lasciando che la diffusione della cultura dell’olio sia affidata solo a corsi tenuti da assaggiatori su e giù per il Paese. Devono essere coinvolte tutte le forze. Salvare l’olio significa difendere l’agricoltura dei piccoli contro quella dei grandi gruppi. Il passaggio dall’agricoltura all’agroindustria, ha stravolto i nostri usi alimentari e cancellato tradizioni sane. Nonostante qualche passo avanti sia stato fatto, cambiando i frantoi tradizionali con quelli continui, che oggi sono la maggioranza, non sono cambiate abbastanza la qualità e la selezione delle olive prodotte, si raccoglie «di più e peggio per produrre oli mediocri». Spesso si dà colpa al frantoiano, certo «è lui che fa l’olio buono, non bastano le olive buone». L’autore quindi ci porta a riflettere sul prezzo dell’olio: che un extravergine costi 3 euro oppure 20 euro al litro, sulle etichette sono scritte sempre le stesse cose, o quasi. Riconoscere l’olio migliore sullo scaffale della grande distribuzione non è facile. L’unico elemento che davvero ci aiuta è il bollino giallo e rosso della Dop, denominazione di origine protetta, quello giallo e blu dell’Igp , (e adesso c’è anche la De.Co. la denominazione comunale). Attenti però a non scegliere in base alla risonanza geografica, ovvero a quell’idea che lega il valore dell’olio buono a certe regioni di produzione, come Toscana, il Garda, la Liguria, l’Umbria , un concetto, sottolinea l’autore, che a volte muta le terre di eccellenza dell’olio «in terre in cui la mediocrità spunta comunque prezzi alti». Per produrre olio di qualità bisogna far evolvere la tradizione con l’idea dell’innovazione, riportando i contadini imprenditori, al centro di un progetto di tutela dell’ambiente e della nostra salute. Possiamo dire che il vino ha compiuto la sua rivoluzione, mentre l’olio stenta ad affermare una sua diversa identità, in un periodo in cui “è esploso il valore del mangiare bene”.
M.T.
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